Con l’ordinanza n. 25987 del 6 settembre 2023, la Suprema Corte ha stabilito che il licenziamento per giusta causa conseguente a una condotta del lavoratore lesiva del vincolo fiduciario è un licenziamento ontologicamente disciplinare e, in quanto tale, soggiace alle garanzie dettate in favore del prestatore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell'addebito e il diritto di difesa.
IL CASO
I giudici d’appello, in riforma della sentenza del Tribunale, con sentenza non definitiva dichiaravano l’illegittimità del licenziamento comminato a Sempronio dalla datrice di lavoro Caia, e condannavano l’appellata alla riassunzione o, in subordine, alla corresponsione di un’indennità commisurata a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto erogata.
Con sentenza definitiva, svolta CTU contabile, condannavano al pagamento in favore dell’appellante della complessiva somma di euro 32.830,76 a titolo di retribuzioni maturate e non corrisposte, tredicesima e quattordicesima mensilità, differenze paga, ferie non godute, compenso per lavoro straordinario, lavoro festivo e domenicale, festività, riposo settimanale non goduto, ROL e TFR per la durata del rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti nel periodo di riferimento, oltre accessori.
In particolare, la Corte territoriale:
• accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal gennaio 2008 sino alla data del licenziamento, con l’orario di lavoro ordinario e straordinario dedotti dal lavoratore;
• dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare, anche alla luce dell’intervenuta assoluzione definitiva in sede penale per l’imputazione di appropriazione indebita a base del recesso datoriale;
• riteneva la compensazione disposta dal Tribunale anche in violazione dell’art. 112 c.p.c., perché non vi era stata tempestiva eccezione in tal senso da parte della datrice di lavoro.
Caia ricorreva per la cassazione di entrambe le sentenze lamentando, in particolare, la nullità o erroneità della sentenza parziale, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e dei contratti e accordi collettivi e nazionali di lavoro.
Per la ricorrente, il recesso datoriale in questione andava inquadrato nella fattispecie del licenziamento in tronco giustificato dalla grave lesione del rapporto fiduciario, e che i giudici di secondo grado avrebbero errato nel ritenere illegittimo il licenziamento per mancata preventiva contestazione dell’addebito disciplinare.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione, nel dare torto a Caia, richiamava consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Il licenziamento per giusta causa, irrogato per una condotta tenuta dal dipendente nell'ambito del rapporto di lavoro e ritenuta dal datore di lavoro tanto scorretta da minare il vincolo fiduciario, è un licenziamento ontologicamente disciplinare, a prescindere dalla sua inclusione tra le misure disciplinari dello specifico regime del rapporto, e deve essere assoggettato, quindi, alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell'addebito e il diritto di difesa”.
In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Licenziamento: non è legittimo se la giusta causa è una prassi aziendale
La Cassazione afferma che la giusta causa di licenziamento è una nozione normativa ampia che deve essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama
Il caso: il datore contesta l’improprio uso della carta fedeltà
La vicenda in esame prende avvio dal licenziamento (senza preavviso) attuato dal datore di lavoro a carico di una propria dipendente, all'esito di una contestazione disciplinare con cui veniva contestato alla lavoratrice di avere creato una fittizia carta fedeltà (intestata ad una persona inesistente), di averla utilizzata in più occasioni “per acquisti effettuati da clienti in modo da ottenere un indebito accumulo di punti nonché uno stato di "Card Platinum”, così privando “i clienti stessi della possibilità di sottoscrivere la propria fidelity". Tali condotte erano state valutate dal datore di lavoro “a danno e detrimento degli interessi della società e a (…) esclusivo vantaggio (della lavoratrice) per interessi del tutto personali”.
Avverso tale decisione, la dipendente impugnava il licenziamento dinanzi al Giudice del merito che, sia in primo che in secondo grado, aveva accolto il ricorso della lavoratrice.
In particolare, la Corte di appello di Firenze aveva ritenuto che il fatto contestato fosse inesistente e aveva pertanto condannato parte datoriale al pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, oltre al risarcimento del danno nella misura di dodici mensilità in favore dell’ex-dipendente.
Tale decisione veniva assunta sulla base di una valutazione dei fatti, processualmente acquisiti, ritenuti dalla Corte territoriale “indicativi di una modalità diffusa (…) di impiego della carta irregolare: modalità condivisa dalle responsabili delle filiali e che non era stata smentita, dalla prova per testi raccolta, con la conseguenza sia della inesistenza di un qualche vantaggio personale della dipendente che di un uso diffuso circa una prassi diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali”.
La decisione del Giudice di secondo grado è stata impugnata dal datore di lavoro che ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
La giusta causa è ascrivibile alla cosiddette clausole generali
La Corte di Cassazione, investita della vicenda sopra rappresentata, con ordinanza n. 35516/2023, ha respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro e ha confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di secondo grado.
Rispetto al ritenuto utilizzo improprio della carta fedeltà, che ha condotto al licenziamento della dipendente, la Corte ha anzitutto ribadito “il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge”.
Ciò posto, il Giudice di legittimità ha proseguito il proprio esame, affermando che “nella fattispecie in esame la Corte territoriale, inquadrata la contestazione disciplinare in un contesto in cui la operazione irregolare di creazione della carta fedeltà era connessa anche all'esclusivo vantaggio della dipendente per interessi del tutto personali e a detrimento dell'interesse aziendale, ha ritenuto che nessuno di tali elementi, che rappresentavano componenti necessari dell'addebito, fossero ravvisabili nel caso de quo”. Rispetto a tali fatti, spiega la Corte, il Giudice di secondo grado ha “rilevato che la carta irregolare era risultata essere stata associata a vendite effettuate anche da diverse altre lavoratrici (…) e di tale circostanza erano a conoscenza le responsabili dei negozi”.
Quanto rappresentato era quindi idoneo, secondo la Corte territoriale, ad avvalorare l’esistenza di una prassi aziendale diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali, che, in mancanza, vi avrebbero rinunciato e dimostrava altresì che l'esecuzione delle operazioni irregolari “non era a esclusivo vantaggio della lavoratrice e a detrimento dell'interesse aziendale”.
La Corte di appello ha, in questo senso, valutato la creazione artificiosa di una carta fedeltà, inquadrando tale condotta rispetto all'intero addebito, considerandolo non dimostrato nella sua complessità, in quanto “la contestazione era appunto incentrata sul comportamento della lavoratrice e sui suoi effetti e non anche sul singolo episodio (creazione della carta), che da solo non era stato indicato quale causa esclusiva del recesso e comunque idoneo a giustificare il licenziamento”.
In relazione a quanto appena detto, la Cassazione ha dunque ritenuto che la Corte distrettuale aveva correttamente ritenuto insussistente il fatto contestato e, per l’effetto, ha dato applicazione alla tutela di cui alla legge n. 300/1970, ex articolo 18, comma 4.